Fabio, 18 anni festeggiati in casa famiglia

Fabio è diventato maggiorenne il 2 gennaio, in casa famiglia. E’ qui che, allo scoccare della mezzanotte, ha ricevuto i primi auguri: dai suoi “fratelli”, così li chiama. “A mezzanotte e 5 è arrivato Flavio, l’educatore, in camera mia. Mi ha domandato se stessi dormendo e mi ha chiesto di andare un attimo da lui, doveva parlarmi.

“Immaginavo volesse farmi gli auguri, ma non mi aspettavo che saltassero tutti fuori dalle camere e dai letti, gridando ‘Buon compleanno’!. Mi ha colpito tanto, è stato bello. Siamo stati un po’ insieme, poi siamo andati a dormire. La mattina mi sono alzato presto, per prendere l’autobus e andare a casa, a festeggiare con mia mamma. Dopo pranzo, ho fatto un salto dalla famiglia di supporto”.

La famiglia di supporto?

“Sì, è una famiglia che ti aiuta durante il soggiorno in casa famiglia, ti offre anche la possibilità di andare a dormire da loro, ogni tanto. Io ci vado, quando ho tempo. Sono stato un po’ con loro e poi sono tornato e ho studiato, perché anche il giorno del compleanno mi tocca studiare. A proposito, oggi devo preparare un compito di Filosofia, ma per fortuna me lo sono dilazionato in tanto tempo, mi manca poco…”. Fabio frequenta il quarto Liceo scientifico e sceglie con cura ogni pensiero e ogni parola: la sua capacità di lettura di ciò che accade intorno a lui (e anche dentro di lui) salta subito agli occhi.

Torniamo, con lui, al 2 gennaio…

“Il pomeriggio abbiamo festeggiato anche qui, a casa – così Fabio chiama la casa famiglia – Mi ha fatto particolarmente piacere che sia passata anche Orietta, una volontaria eccezionale, che mi chiama quasi tutte le sere, ovviamente tramite gli educatori. Qualche giorno dopo, è toccato ai compagni di classe. Volevo organizzare qualcosa, ma mi hanno preceduto. Mi ha chiamato Emanuele: ‘Fabio ti va di venire a mangiare una pizza con noi stasera, per festeggiare?’ Era il 14 gennaio – precisa Fabio, verificando la data sul calendario – E così ho festeggiato anche con i compagni di classe. E’ stata un’altra grande sorpresa”.

E adesso, a 18 anni compiuti, come ti senti e che progetti hai?

Inizialmente ho avuto un po’ di ansia, sentivo che ero diventato responsabile di me stesso. Non so perché questo mi mettesse ansia, visto che, in realtà, io sono stato sempre responsabile di me stesso: anche da piccolo ho vissuto spesso esperienze da grande. In molte situazioni, me la sono dovuta cavare da solo. Ora ho tanti obiettivi in testa… innanzitutto, approfittare del tempo che ancora passerò qui per aprirmi quante più strade possibili per il futuro: penso a un concorso pubblico, in cui noi care leaver risultiamo tra le cosiddette categorie protette. Sicuramente, voglio andare all’università: Ingegneria civile, oppure a Medicina. Tengo già d’occhio i “tolc” e voglio prepararmi presto per la prova d’ingresso di Medicina: meglio fare le cose per tempo.

La sua casa continuerà ad essere la casa famiglia, ancora per un po’…

“Non so fino a quando, ma l’obiettivo è cercare una sistemazione stabile e qualche entrata economica sicura, per non dipendere da nessuno, ma al tempo stesso non essere immerso nell’instabilità. So che ci sarà un accompagnamento da parte del Protettorato e questo mi fa stare tranquillo. Un vecchio proverbio dice: ‘Chi va piano va sano e va lontano, chi va forte va incontro alla morte’. Secondo me, fasciarmi la testa per diventare subito indipendente, magari accontentandomi della prima scappatoia, non mi porterebbe lontano. Mi farò aiutare e accompagnare, sfrutterò le occasioni che mi verranno offerte. Anche vedendo gli altri ragazzi che sono usciti da qui, ho tratto qualche insegnamento. Penso che uno degli errori da evitare sia proprio quello di incaponirsi: ‘Sono maggiorenne, voglio andarmene subito per la mia strada’. L’altro errore, opposto, è adagiarsi sugli allori, pensando di poter stare qui chissà quanti anni ancora e poi ridursi a fare tutto negli ultimi mesi. Bisogna trovare un equilibrio: non farsi prendere dall’ansia, ma non restare fermi ad aspettare”.

Fabio ha visto entrare e uscire tanti ragazzi, nei sei anni trascorsi da quando è entrato, la prima volta, in casa famiglia

“Era il 26 aprile 2018, arrivai a Pollicino (la casa famiglia per i più piccoli, ndr) che avevo 12 anni. In quel momento, ho vissuto la separazione da mia madre e l’arrivo in casa famiglia con grande pesantezza: mi sembrava soprattutto una punizione, piano piano mi sono ho iniziato a capire che era anche un’opportunità. Dopo due anni, sono uscito e sono tornato a casa. Pensavo che mia madre si fosse ripresa e che andasse tutto bene. Invece, soprattutto con la pandemia, i problemi sono ricominciati. A quel punto, ho iniziato a vedere chiaramente la casa famiglia non più come una punizione, ma solo come un’opportunità. E ho chiesto io di poterci tornare. Così, dopo esserne uscito due anni prima, nel 2022 sono rientrato in Protettorato, stavolta nella casa famiglia dei più grandi. Ho cercato di impegnarmi in questo percorso, consapevole che questa opportunità non torna due volte. Ho fatto tutto il possibile per poterla sfruttare. Certo, mi mancava l’affetto di mia madre, ma ho capito che non si può andare avanti solo con l’affetto. E mi rendevo anche conto che, stando qui, sarei cresciuto meglio e al tempo stesso avrei aiutato anche mia madre”.

Quali sono gli anelli di quella catena dell’accoglienza che si stringe intono a un minore, quando entra in casa famiglia?

Il primo anello sono gli educatori. Poi c’è l’assistente sociale, che resta anche dopo i 18 anni. Quando sei minorenne, ci sono anche il curatore (un avvocato) e il tutore, che fa le veci del genitore. E poi c’è il Tribunale per i minorenni, con i giudici che hanno in carico il tuo caso. Ogni ingresso e ogni uscita avvengono per decreto, tutto è in mano al tribunale”

L’anello debole? E quello più forte?

L’anello debole è sicuramente il tutore: ha tanti, troppi casi e non riesce a seguirli bene. Così, noi rischiamo di diventare un numero di protocollo. Io ho visto il mio tutore al massimo due volte all’anno, ma forse anche meno. Eppure, è lui che deve autorizzare tutto. L’anello forte invece è rappresentato indubbiamente dagli educatori. Loro sono super preparati, tutti laureati, c’è chi ha più di una laurea, sono davvero molto competenti. E qui in Fondazione non c’è quel via vai di educatori che si trova in altre strutture: se lavorano bene. vengono stabilizzati e così diventano punti di riferimento, anche se a volte passano da una casa all’altra. Il rapporto con l’educatore cresce insieme a te: quando sei piccolo, l’educatore è molto simile a un genitore. Quando sei più grande, diventa una persona con cui confrontarsi, avere un dialogo, confidarsi.

Oggi Fabio è il più grande, in casa famiglia. Qual è il suo rapporto con i piccoli? E come ricorda, invece, il suo rapporto con i ‘grandi’, quando il bambino era lui?

“Nella nostra casa famiglia oggi ci sono ragazzi dagli 11 ai 18 anni: io con i più piccoli ho ottimi rapporti, quando posso do sempre una mano. Credo sia giusto che io contribuisca e abbia degli incarichi. Per esempio, gli educatori mi hanno affidato il compito di accompagnare un ragazzo a calcio, il mercoledì e il venerdì. Mentre da ottobre a dicembre ho avuto l’incarico di occuparmi, insieme alla tirocinante, dei libri scolastici. Sono cose che faccio molto volentieri: sento che è utile per gli altri, ma anche per me. Come vedevo i grandi, quando il piccolo in casa famiglia ero io? Poco collaborativi e abbastanza facinorosi, ma sempre molto rispettosi verso i più piccoli”.

Non sono sempre facili, le dinamiche in casa famiglia: un po’ come in tutte le famiglie. Quali sono le maggiori difficoltà, nella vita di tutti i giorni?

Vivere a contatto con altri ragazzi che hanno le più svariate storie significa avere a che fare, a volte, con la maleducazione, o con cattive abitudini. Un esempio? Il bagno lasciato sporco, o in disordine. Soprattutto se sei il più grande, hai il compito di condividere le regole, ma devi essere anche esser molto empatico, metterti nei panni dell’altro: se uno non pulisce il bagno, forse è perché non lo ha mai fatto. Servono grandi capacità empatiche, in casa famiglia. Quando sei più grande, capita anche che alcuni ragazzi vengano a confidarsi: anche qui, bisogna trovare un equilibrio, per non essere in alcun modo confusi con l’educatore, a cui invece tutti devono sempre fare riferimento.

Il “fiore all’occhiello” del Protettorato?

Il complesso della struttura e l’organizzazione del personale: qui puoi divertirti, puoi andare in chiesa se sei credente, puoi trovare il tuo spazio, coltivare il tuo interesse. Un altro fiore all’occhiello è sicuramente il Centro per famiglie, dove si prova ad “aggiustare” la situazione familiare, senza doversi sbattere chissà dove. Io posso dirlo, perché prima che aprisse questo spazio all’interno del Protettorato, dovevo andare tutte le settimane in un centro al Tufello, per vedere un’ora mia madre. Qui non solo è tutto semplice, ma è anche molto più familiare: mi sento molto più sereno, incontrando mia madre nel posto che mi ospita. Altri fiori all’occhiello sono la cooperazione tra gli educatori, come pure i servizi che aumentano sempre di più.

Cosa consiglieresti a un bambino di 12 anni che entrasse oggi in casa famiglia? Come lo aiuteresti a superare l’angoscia della separazione dalla sua famiglia?

Gli direi di fare affidamento soprattutto sugli educatori: di affidarsi e fidarsi, di essere collaborativo e di sfruttare questa opportunità. E poi gli consiglierei di rivolgersi al servizio di supporto psicoterapeutico che mette a disposizione la Fondazione: di approfittare del sostegno che offre, perché è di grande aiuto, durante l’intero percorso. A me è servito tanto. Per l’angoscia della separazione… beh, non si può fare molto, quella all’inizio c’è: l’unica cosa che si può fare è aiutare il bambino a distrarsi. Mi ricordo che quando sono arrivato io, spaurito e preoccupato, mi si è avvicinato un ragazzo, Nicola. Mi ha preso e mi ha detto: “Vieni a giocare”. Tutto qui. Così mi sono distratto, non ho pensato alla casa famiglia, alla separazione. Certo, la sera il dolore tornava, ma piano piano ho iniziato a elaborare e ad accettare anche la separazione.

E la famiglia? Come si può aiutarla ad accettare?

Il problema è la narrazione che viene fatta: la casa famiglia viene presentata come una struttura in cui prendono e ti portano via i figli perché non te li meriti. L’assistente sociale viene visto come un mostro, il cui lavoro è portare via i ragazzi: questo non rispecchia assolutamente la realtà delle cose. Ma per colpa di questa narrazione, i genitori vivono molto male la separazione, se la prendono con gli assistenti sociali, con gli educatori, perfino con i figli, se sono stati loro a chiedere aiuto. Soprattutto nelle famiglie a basso reddito e bassa istruzione, la percezione è molto distorta e questa narrazione prende molto piede, creando una contrapposizione tra famiglia e casa famiglia. Non so quanti genitori ho visto, venire qui a fare casino, o urlare contro gli assistenti sociali, o prendersela con i figli. In questo, è di grande aiuto il Centro per la famiglia, che premette ai ragazzi e alle famiglie di comprendere, per poter avviare un percorso di riconciliazione. Anche mia madre all’inizio aveva questa visione distorta, ma poi ha capito, piano piano, anche grazie agli educatori che l’hanno saputa aiutare. Quando ho chiesto di tornare in casa famiglia, non ha protestato: ha chiesto perché volessi di nuovo andarmene di casa, ma poi ha compreso e accettato.

Il ricordo più bello?

Ne avrei così tanti… Se devo sceglierne uno, forse scelgo il ricordo di P., un bambino di 5 anni che è arrivato a Pollicino mentre io ero lì da circa un anno. Parlava solo francese, lo hanno messo in camera con me. Nei 5 mesi che è rimasto in casa famiglia, io sono stato una delle sue figure di riferimento, anche se avevo solo 13 anni. Quando è andato via, ho sofferto tanto. Ricordo che Emanuela, l’educatrice, mi disse: ‘Capisco il tuo dolore. Gli hai quasi fatto da padre’. Un altro bellissimo ricordo è la giornata in Vaticano, dove io e Mahmoud abbiamo preso la parola. E’ stato un altro momento bellissimo. E poi, di bello, ci sono tutte le cose che impari: impari a conoscere persone nuove, a entrare in rapporto con loro, ma impari anche salutarle e separarti, quando vanno via… Impari ad assumere degli incarichi, cosa che non sempre accade in famiglia, con papà e mamma che fanno le cose al posto tuo.

E i momenti più brutti?

Forse i primi tempi a Pollicino, la tristezza e la nostalgia. E anche doversi separar dalle persone a cui ti affezioni: questi saluti sono momenti brutti. Ma un’altra cosa che impari qui è che dopo un momento brutto, arriva sempre un momento bello. E impari ad aspettare: anche questa è una cosa importante che la casa famiglia ti insegna e che ti servirà per tutta la vita.

Pensi che un giorno, in futuro, taglierai i ponti con il Protettorato?

Non potrò mai farlo: resterò in contatto, tornerò. E ho in mente di diventare un volontario, per poter mettere a disposizione di altri tutto quello che qui ho imparato e ricevuto. Avrebbe molto senso. E molto valore.

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