Quando alla porta bussa un minore straniero non accompagnato. Maria racconta

Una sigla di sole quattro lettere, ma dentro un mondo da lasciare e un altro mondo, completamente diverso, da scoprire e fare proprio. MSNA sta per minori stranieri non accompagnati: in altre parole, sono ancora piccoli, o almeno molto giovani (“minori”), non parlano l’italiano e non conoscono l’Italia (“stranieri”) e sono soli (“non accompagnati”). Accoglierli significa innanzitutto proteggerli, metterli in sicurezza: quella sicurezza che hanno sognato quando si sono avventurati sul Mediterraneo (la gran parte di loro) o comunque sono partiti diretti verso l’Europa. Accoglierli significa poi, immediatamente dopo, aiutarli a orientarsi, a decifrare questo mondo per loro nuovo, a conquistare quegli strumenti necessari per diventare autonomi e avere una vita dignitosa, possibilmente migliore di quella che hanno lasciato. 

Tutto questo va fatto in fretta, perché i ragazzi che arrivano sono per la maggior parte grandi e prossimi alla maggiore età. Molti hanno 17 anni, il che significa che a volte il tempo per aiutarli si restringe

A parlare è Maria Rizzo, educatrice della Fondazione Protettorato Di San Giuseppe, che dal 2017 lavora nell’accoglienza dei MSNA e ama profondamente questo lavoro, “difficile, complesso, ma bellissimo, affascinante e pieno di sfide. A volte accade che. in un breve lasso di tempo, dobbiamo mettere in campo tutte le azioni possibili per garantire un buon processo di integrazione ed inclusione”.

Sì, perché al raggiungimento dei 18 anni termina formalmente il percorso di presa in carico nella strutture di seconda accoglienza per minore età anche se diverse realtà restano punti di riferimento nel processo di inclusione dei ragazzi ormai maggiorenni. Ma torniamo al racconto di Maria, che ci descrive, passo dopo passo, come avviene l’accoglienza, dal momento dello sbarco sulle coste italiane a quello in cui arrivano in Fondazione, fino alla loro “emancipazione” verso l’autonomia.

In Italia è stato costituito un sistema di accoglienza che si occupa dei minori stranieri presenti sul territorio nazionale privi di assistenza e rappresentanza legale, richiedenti la protezione internazionale e non . Questo sistema è organizzato su due livelli che entrano in campo a seguito dell’identificazione dei MSNA sul territorio nazionale realizzata dalle autorità competenti. Le strutture specializzate costituiscono i due livelli e vengono suddivise in:
– Prima accoglienza, che effettua la fase iniziale della presa in carico, occupandosi anche dell’avvio delle prime formalità (identificazione, eventuale avvio delle pratiche di protezione internazionale, richiesta di affidamento ad un tutore, screening sanitario…);
– Seconda accoglienza: che mantiene continuità alla presa in carico, offrendo al minore servizi maggiormente specializzati e servizi di integrazione ed inclusione gestiti in collaborazione con l’ente territoriale competente ed il SAI (Sistema di Accoglienza ed Integrazione)

La Fondazione è una delle strutture specializzate per la seconda accoglienza: qui, i minori vengono accolti e presi in carico all’interno di case famiglia che ospitano anche ragazzi italiani. Non strutture quindi riservate agli stranieri ma, secondo un principio di piena inclusione e anche di educazione tra pari, in case in cui, fin dall’inizio, convivono con ragazzi di età e nazionalità diverse. Torniamo ad ascoltare Maria.

La seconda accoglienza prevede la prosecuzione del processo di presa in carico, già iniziato dai colleghi della prima accoglienza. Il minore giunge in Fondazione, di solito accompagnato dall’assistente sociale che funge da raccordo rispetto a tutto il lavoro svolto nella fase iniziale. Avviene quello che formalmente viene definito passaggio di consegne, anche se questo rappresenta sempre un momento di scambio e confronto con i nostri colleghi. Al momento dell’accoglienza, è sempre presente una parte dell’equipe multidisciplinare, costituita dal referente educativo, l’educatore professionale ed il mediatore interculturale. Nel nostro organico sono operativi due mediatori di lingua araba. con conoscenza della lingua francese ed inglese. che rappresentano una risorsa preziosa in tutto il processo di presa in carico. In presenza di minori con lingua diversa da quelle elencate, la struttura chiede nell’immediato agli enti preposti l’invio del mediatore in grado di garantire la giusta comunicazione. L’ingresso in una nuova realtà abitativa può creare anche disorientamento nei ragazzi: per questo, attraverso il lavoro di mediazione, si cerca di accompagnarli passo dopo passo, partendo proprio dalla presentazione dell’equipe, della struttura, degli altri ospiti e dei nuovi spazi personali e comuni di vita. Accogliere significa anche avvicinarsi ed il modo migliore è farlo nella lingua conosciuta dai ragazzi: per questo, anche noi educatori abbiamo imparato qualche parola in arabo, con una pronuncia che spesso fa sorridere i ragazzi, ma che allo stesso tempo li illumina, facendoli sentire meno disorientati e più “a casa”. La nostra priorità è riuscire ad entrare in comunicazione con i ragazzi, per costruire una relazione di fiducia e favorire un inserimento in un clima accogliente: in questo processo, il mediatore culturale rappresenta l’anello fondamentale. Fin da subito, inoltre, offriamo la possibilità di affiancare i nostri volontari, che supportano e accompagnano il ragazzo nell’apprendimento della lingua italiana. Al termine dei colloqui conoscitivi, si procede con l’inserimento all’interno della casa, viene firmato il Patto di accoglienza ed illustrate e condivise le regole della struttura. Da parte nostra, facciamo tutto il possibile per consentire la personalizzazione del nuovo contesto abitativo per fare in modo che il ragazzo possa sentire propria la stanza e soprattutto la casa

Ma in che condizioni arrivano questi ragazzi? E quali difficoltà s’incontrano nell’accoglierli e affiancarli?

I ragazzi arrivano portando sulle proprie spalle le esperienze spesso traumatiche della separazione, del percorso migratorio, dell’adattamento al nuovo contesto culturale, che possono generare una condizione di spaesamento e vulnerabilità. Per questo, nel nostro lavoro, è necessario operare in equipe multidisciplinare, formata da diverse figure professionali, che attraverso le proprie specifiche competenze contribuiscono alla valutazione ed alla presa in carico complessiva del minore, evitando così ulteriori traumatizzazioni. Le difficoltà che s’incontrano possono essere molteplici e variabili, ma si cerca sempre di affrontarle attraverso il lavoro congiunto di tutta la rete territoriale che sostiene il ragazzo. È anche attraverso questo intenso lavoro integrato, che viene definito il progetto educativo, costruito sulla base delle inclinazioni e delle aspettative del ragazzo. Tutti gli obiettivi vengono condivisi e discussi con il minore, che è sempre affiancato da un operatore in ogni passo che compie. È proprio su una visione progettuale che inizia la vita comunitaria: una vita che, qui in Fondazione, il ragazzo condivide con altri coetanei, stranieri e italiani, in un clima di piena inclusione e integrazione. Questa è la peculiarità della nostra accoglienza, in cui crediamo molto: la convivenza tra ragazzi stranieri ed italiani, che permette una sana ed efficace “contaminazione”. Capita sovente di sentire i ragazzi italiani esprimersi con espressioni in lingua araba e posso assicurarti che su questo sono molto più bravi degli operatori! Si forma così una vera e propria comunità educante, generata da ciò che viene definita “peer education”: quell’educazione tra pari che produce spesso frutti incredibili. Certo, di fronte a situazioni così complesse, vissuti così traumatici è necessario tutto l’approccio integrato del quale ti parlavo prima, per favorire l’elaborazione del percorso migratorio. Ma intanto, la quotidianità all’interno della casa permette a questi ragazzi di sentirsi al sicuro e di sentirsi benvenuti: la vita si svolge come in ogni famiglia, le attività quotidiane seguono dei ritmi scanditi. dalla colazione fino alla scuola e poi fino a sera.

Quale scuola?

Tutta la nostra azione educativa mira a definire dei percorsi che favoriscano il processo di integrazione nel contesto italiano e sicuramente l’acquisizione della competenza linguistica risulta per noi ed il ragazzo un obiettivo primario. Quindi, oltre al sostegno linguistico offerto nella prima fase d’inserimento, procediamo con l’iscrizione presso i centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA), che offrono una formazione mirata per i MISNA ed organizzano percorsi di alfabetizzazione e di istruzione di primo e secondo livello. Raggiunta la competenza linguistica, molti dei ragazzi ospitati qui in Fondazione proseguono con il percorso di istruzione, fino al conseguimento della licenza media. Chiaramente la fase formativa non termina qui, ma continua sempre secondo la visione progettuale di vita. Per questo, al termine del percorso scolastico, grazie alla rete che il Protettorato ha tessuto sul territorio, individuiamo. sempre secondo le aspettative e i desideri del ragazzo, un percorso formativo professionalizzante, che fornisca competenze utili per inserirsi nel mondo del lavoro e quindi costruire la propria autonomia. Vengono così attivati borse lavoro, corsi professionali, tirocini formativi che in diversi casi si concludono con inserimenti lavorativi e stipule di contratti.

E quando compiono la maggiore età?

La fase di passaggio alla maggiore età è estremamente delicata: i ragazzi spesso vivono e riportano la paura di ritrovarsi senza casa e senza tutta la rete che li ha circondati fino a quel momento. Tengo a precisare che esistono comunque situazioni nelle quali la legge può disporre un affidamento ai servizi sociali fino al compimento dei 21 anni. La domanda “E poi?” la pone il ragazzo, ma ce la poniamo anche noi, nel percorso progettuale. E’ per questo che cerchiamo, in tutta la fase di accoglienza, di far sì che questa grande architettura di tutela attivata possa rimanere solida anche dopo l’uscita dal circuito di accoglienza. Accompagniamo i ragazzi non soltanto nell’attivazione di tutte le occasioni professionali in grado di garantire un successivo inserimento lavorativo, ma restiamo con loro anche rispetto all’individuazione di unità abitative, orientamento territoriale, gestione della quotidianità in autonomia e molto altro. È un lavoro che precede e prepara la chiusura del percorso, ma che continua anche dopo l’uscita del ragazzo e nella maggior parte dei casi porta al raggiungimento degli obiettivi che ci siamo dati e che abbiamo condiviso. Continuiamo e continueremo ad esserci sempre per loro!

In quale misura, però, il “successo” del progetto dipende dalla predisposizione del ragazzo al suo arrivo e dalla “semplicità del caso”, per così dire?

I ragazzi che arrivano in Italia con una motivazione progettuale definita sono certamente quelli con cui è un po’ più “semplice” costruire un percorso d’integrazione. Di certo il nostro obiettivo non è soltanto quello di sostenere coloro che sono dotati di maggiori strumenti, ma è anche quello di lavorare sull’insieme, sull’individuazione delle vulnerabilità generate dai vissuti traumatici, sulla definizione dei giusti percorsi attraverso quell’approccio multidisciplinare in grado di garantire che nessuno venga escluso nel processo di accoglienza e d’inclusione.

Quanto è “complicato” lavorare con questi ragazzi?

Tanto complicato quando affascinante ed entusiasmante: non nego di aver vissuto e di vivere momenti emotivamente impegnativi. Sono i momenti nei quali gli esiti dei percorsi migratori si acutizzano in reazioni importanti, caratterizzate da emozioni antitetiche che possono portare al ritiro, o a crisi d’identità. Non dobbiamo dimenticare che per emigrare il minore, oltre ad affrontare un viaggio pericoloso, abbandona le proprie sicurezze e ciò che aveva costruito nel proprio paese. Come educatori, non smettiamo mai di interrogarci, cerchiamo di far sentire la nostra presenza e la nostra fiducia. Come ti dicevo, si vivono momenti difficili soprattutto quando ti ritrovi di fronte a narrazioni dolorose che vanno non soltanto accolte, ma sostenute, in uno spazio di dialogo che permette di supportare il ragazzo nel processo di elaborazione del percorso migratorio. Siamo chiamati a costruire percorsi di rielaborazione delle esperienze vissute, di modo che si possa arrivare ad una autoconsapevolezza di una prospettiva futura. Mi piace pensare che l’educatore rappresenti quella radice che nessuno vedrà, ma grazie alla quale l’albero potrà stare in piedi. Radicare speranza nei “terreni” che possono presentare ostacoli, accompagnare ad esprimere il proprio potenziale ed aiutare ad autodeterminarsi: questo è il senso del nostro agire educativo. Non è un percorso semplice, perché nella loro narrazione ci ritroviamo di fronte al dolore della separazione, allo smarrimento, alle paure che hanno provato e provano, alle preoccupazioni per il domani. Il nostro compito è proprio quello di sostenerli nel processo di rielaborazione e facilitarli nella costruzione di sentimenti ed emozioni positive. Prendersi cura significa scendere in ascolto profondo, comprendere i bisogni dell’altro, ma anche assumersi la responsabilità e l’impegno di garantirne tutti i diritti. In questo grande processo di accoglienza, la Fondazione possiede molte risorse che mette in campo quotidianamente: oltre all’operatività dell’equipe multidisciplinare, abbiamo il prezioso contributo dei volontari, dei tirocinanti e anche delle famiglie di supporto, che con noi collaborano nell’attuazione delle diverse attività dei ragazzi. C’è tanto da fare e spesso il tempo per realizzarlo è breve: ogni giorno, all’interno dell’equipe e della Fondazione, lavoriamo mettendo sempre a fuoco i bisogni formativi, cerchiamo nuovi metodi, nuove strategie, nuovi percorsi, nuovi strumenti operativi per accogliere questi ragazzi nel modo in cui hanno bisogno di essere accolti, per poter costruire qui una vita e un futuro. È una sfida, ma dobbiamo per forza vincerla. Spesso, per fortuna, la vinciamo…insieme a loro.

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