Karim si aggira per la stanze del Giardino di Pace e sembra che ci sia sempre vissuto: invece è arrivato qui poco più di un mese fa, insieme alla giovane mamma Fatima. 24 anni lei, 19 mesi lui, di cui gli ultimi cinque vissuti tra guerra e ospedali. Era il 5 gennaio scorso, quando la casa accanto alla loro è stata bombardata. Per le violente scosse, il bollitore che era sul tavolo si è rovesciato addosso al piccolo Karim. Un’ustione di 4° grado su diverse parti del corpo ha reso necessario il ricovero in un ospedale di Gaza, poi il trasferimento in un ospedale egiziano. Da qui, grazie al corridoio umanitario aperto a febbraio dalle organizzazioni umanitarie (Arci, Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio e Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia) per alcuni malati e feriti palestinesi (62 persone in tutto), Karim e Fatima sono saliti a bordo di un aereo militare italiano e atterrati a Roma. Era il 9 febbraio. Poi il ricovero al Bambino Gesù, per essere certi che le cure fossero quelle giuste. Dopo una settimana, le dimissioni.
Fatima e Karim, però, non avevano un posto dove andare: Roma era una città sconosciuta, l’Italia un Paese completamente estraneo. Fatima non poteva comunicare, parla solo arabo. Era sola con suo figlio, catapultata in un mondo nuovo, addosso la paura della guerra e la nostalgia della famiglia. Una porta però si è aperta, per farli entrare e accoglierli nel calore di una casa e di una comunità: il Protettorato San Giuseppe aveva un posto per loro. O meglio, lo ha trovato. Perché il Giardino di Pace, la casa famiglia destinata a mamme con figli, era al completo. Ma c’era una stanza libera, proprio sopra la direzione, tra le palazzine della Fondazione. E la presidente, Elda Melaragno, ha voluto che quella stanza fosse tutta per loro: per Fatima e Karim. Perché non si possono lasciare fuori dalla porta e una mamma e il suo bambino, scappati da quella terra devastata dalle bombe. E’ successo tutto molto in fretta, perché tempo per prepararsi non ce n’era. “Arrivano una mamma palestinese e il suo bambino”, è rimbalzata la voce da una stanza all’altro del Protettorato. “Ma quando?” “Oggi. Tra un’ora”.
Era la sera del 14 febbraio, il giorno dedicato a chi si ama. Come Fatima e Karim, che la sera di San Valentino sono arrivati qui e hanno trovato una grande famiglia ad accoglierli. Oggi vivono qui e trascorrono gran parte della loro giornata nel Giardino di Pace, dove Fatima sta facendo assaggiare i suoi piatti tradizionali a tutti gli ospiti. “E’ una bravissima cuoca”, ci assicura Luigina, l’educatrice che oggi è di turno al Giardino di Pace ed è seduta accanto a lei. “Ci tiene tanto a condividere con noi i sapori della sua terra”, aggiunge. Poi, la sera, Fatima e Karim si ritirano nella loro stanza. Lei prega e osserva il Ramadan, in questi giorni. Karim piano piano prende sonno, anche se i rumori forti ancora lo fanno sussultare. Sorride sempre, Karim, mentre Fatima ci racconta la loro storia e i suoi progetti, nel salotto del Giardino di Pace. Comunichiamo grazie a Taha, responsabile del personale della cooperativa Auxilium presso il Protettorato: di origini palestinesi anche lui, ci aiuta a comunicare con Fatima, permettendo a lei di raccontarci la sua storia. E a noi di ascoltarla.
Mi chiamo Fatima, ho 24 anni, sono sposata. Mio marito è negli Emirati Arabi per lavoro: è partito a settembre, poco prima che scoppiasse la guerra. E lui è Karim, nostro figlio. Siamo della Palestina, precisamente di Gaza. Fino a ottobre, la nostra vita era normale: una vita semplice, ma eravamo felici. Io e Karim vivevamo insieme ai miei suoceri e alla sorella di mia suocera, a Gaza sud. Io ho studiato, tutti a Gaza studiavano ormai. Sono laureata, come moltissimi giovani palestinesi. Lavoravo nel settore multimediale, in smart working. Poi, all’improvviso, è cambiato tutto. Il 7 ottobre ha sconvolto le nostre vite: alle 6 di mattina abbiamo sentito missili, bombe da tutte le parti, non abbiamo capito più niente. In pochi mesi, abbiamo perso un sacco di gente: tanti parenti, tanti amici, tante persone che amavamo. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ci sono stati bombardamenti e distruzione. Appena sentivamo gli attacchi avvicinarsi, ci rifugiavamo in un angolo della casa che ci sembrava più sicuro: in un punto preciso del salotto, o sotto le scale. E stavamo tutti là. Karim si spaventava tutte le volte, piangeva. Sembrava sempre che stesse per crollare la casa. Diventava tutto rosso. Sangue. Fumo.
Fatima ci mostra delle foto sul telefono: sono le macerie grigie che siamo drammaticamente abituati a vedere. “Così sono i bombardamenti a Gaza”. Uno di quei bombardamenti, il 5 gennaio, ha colpito proprio la casa accanto alla loro.
Avevo il bollitore dell’acqua sul tavolo e si è rovesciato addosso al bambino. E’ stato ricoverato in ospedale per due settimane. Mancava tutto: quel poco che c’era, doveva bastare per tanti, tantissimi feriti. Poi lo hanno dovuto trasferire in un ospedale egiziano. Da lì, ci hanno detto che saremmo andati negli Emirati Arabi, da mio marito. Invece, ci hanno portati in Italia, insieme ad altre 60 persone: donne e bambini, feriti oppure malati. Abbiamo trovato Sant’Egidio ad accoglierci. Siamo stati ricoverati al Bambino Gesù per una settimana e la cooperativa Auxilium ha iniziato a occuparsi di noi. Sono stati loro e il Protettorato ad accoglierci, quando siamo usciti dall’ospedale. Siamo stati molto fortunati.
Fatima ci fa vedere le foto di Karim ferito: il braccio fasciato, il viso coperto di bruciature. Ma il sorriso sempre sul volto. “Anche quando andavamo a trovarli al Bambin Gesù, mentre lo medicavano, lui stava tranquillo, porgeva il braccio e sorrideva”, assicura Taha. “Karim è fantastico – interviene Luigina – E’ entrato qui dentro sorridendo e continua a sorridere, ogni giorno. E’ sempre contento”.
E mentre Karim gira per la stanza, sceglie un libro dallo scaffale più basso e pretende di leggerlo, Fatima ci racconta della sua famiglia, rimasta a Gaza.
Il momento in cui, a bordo dell’ambulanza, abbiamo attraversato il confine con l’Egitto, è stato il momento più duro della mia vita. Mi domandavo: “Rivedrò mai la mia famiglia?”. Da quando è scoppiata la guerra, non ho più visto i miei genitori. Ora vivono tutti in tende allestite su terreni lontani dai bombardamenti. Non è facile comunicare con loro, internet funziona male lì da loro. Ma almeno sono al sicuro, E sono molto felici che io Kharim siamo in salvo. Erano preoccupati per lui. Lasciare Gaza è impossibile. A meno che non si paghino somme enormi: quando vivevo lì, chiedevano 5 mila euro a persona per varcare la frontiera egiziana”. Interviene Taha, per spiegare: “C’è un’agenzia egiziana, Hala, che organizza questi trasferimenti a pagamento: oggi 5 mila euro a persona non bastano più, arrivano a chiedere 11 mila euro a persona.
E il futuro? Cosa immaginate per Gaza? E’ lì che volete tornare?
Adesso voglio raggiungere mio marito negli Emirati Arabi e spero di riuscirci presto. Cercherò subito un lavoro. Tornare a Gaza è impossibile: con questi bombardamenti, non hanno lasciato niente. Gli ospedali, le scuole, non ci sono più. E’ davvero difficile pensare di poter tornare e ricominciare da zero. Immagino che torneremo, prima o poi, solo per andare a trovare i parenti. Ma adesso è a nostro figlio che dobbiamo pensare: a ciò che è meglio per lui. Dobbiamo assicurargli il futuro.
E noi non possiamo che augurare, al piccolo Karim e alla sua mamma, il migliore dei futuri possibili.