Litigare fa bene. Anche in casa famiglia. Ma bisogna imparare a gestire il conflitto

La conflittualità è uno degli elementi che, generalmente, mettono maggiormente in crisi chi si occupa dei ragazzi e delle ragazze in casa famiglia: conflittualità tra coetanei, o verso gli educatori, ma anche conflittualità tra i genitori o tra famiglie ed educatori. Abbiamo chiesto un parere sul tema a Daniele Novara, uno dei principali pedagogisti italiani, autore di un metodo che proprio nell’educazione alla gestione del conflitto ha il suo punto vitale.

Non è sottraendo ai ragazzi la conflittualità che risolviamo i loro (e i nostri) problemi, ma dando loro gli strumenti educativi per compensare ciò che nella loro crescita non hanno avuto

Daniele Novara

Sono parole di Novara, che ha fondato e dirige il Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti: perché pensa che i conflitti non siano mai da criminalizzare, né tanto meno da censurare o sanzionare, ma debbano essere accolti e, appunto, educati. Gli abbiamo chiesto, a nome e a beneficio soprattutto degli educatori delle nostre case famiglia, cos’è, che ruolo ha e come va affrontata la conflittualità che la maggior parte dei nostri ragazzi esprime e manifesta, in casa famiglia e fuori.

Sulla base delle mie ricerche, quando c’è una compromissione evolutiva, legata a situazioni di crescita problematiche, la prima competenza che viene colpita è proprio quella della capacità di gestire i conflitti con gli altri. Questa incapacità è una conseguenza che definirei ontologica: se la crescita è problematica, necessariamente si verificano e si manifestano dei deficit relazionali.

Cosa fare, allora?

Non risolveremo alcun problema sottraendo a questi ragazzi la loro conflittualità, intesa come una modalità di relazione con gli altri in condizioni problematiche e in condizioni di contrarietà. Piuttosto, dobbiamo preoccuparci di dare loro gli strumenti educativi per compensare ciò che dalla loro crescita non hanno avuto. Occorre lavorare proprio sulla competenza conflittuale, non sull’evitamento conflittuale.

Ma il conflitto è violenza? In questi giorni, si parla tanto di conflitto, sappiamo a cosa porta…

No, niente affatto. Anzi, la premessa è che siamo d’accordo sul fatto che conflitto non significa violenza. E non significa guerra, assolutamente no. Sono molto arrabbiato per la confusione che si fa in questi giorni: si parla di conflitto riferendosi alla guerra ed è un’assurdità. Come si fa a continuare a usare questi due termini come fossero sinonimi? Stiamo parlando di massacri, tragedie, omicidii, non di litigi in condominio o in famiglia. Io da decenni cerco di offrire un contributo di chiarimento: abbiamo dimostrato che quando i ragazzi vengono educati o sottoposti a programmi di recupero sulla competenza conflittuale, i risultati ci sono sempre e portano al contrario della guerra e della violenza. Pensiamo ai ragazzi che stanno arrivati dall’Ucraina, zona di grave carenza conflittuale. Tanti sono figli di madri con cui non sono cresciuti, partite per l’occidente quando loro erano piccoli. Questi bambini e ragazzi ora stanno arrivando qui, certamente non in condizioni di equilibrio psicoevolutivo: sarà necessario fare un lavoro con loro, non basterà accoglierli e mandarli a scuola.

Anche i ragazzi che vivono in casa famiglia hanno un equilibrio psicoevolutivo spesso precario. La preoccupazione degli educatori è: come contenere la conflittualità che spesso manifestano con i loro coetanei o con gli adulti?

Ho scritto un libro, “Litigare con metodo”. Il punto non è far smettere di litigare, ma dare un metodo a questi ragazzi per farlo. E gli educatori per primi devono avere questa competenza. Purtroppo, esiste una lacuna nella formazione: nessuno ci insegna a gestire il conflitto, eppure è un elemento basilare. Io inserisco la capacità di litigare da soli tra le autonomie basilari che si acquisiscono tra i 3 e i 6 anni. Per questo, credo che la scuola materna dovrebbe diventare obbligatoria. A scuola, però, non ci insegnano a litigare, anche perché gli insegnanti non sono competenti nella gestione dei conflitti e quindi ne hanno paura. Lo stesso vale per gli educatori, che purtroppo ricevono ancora una formazione universitaria accademica, formale, trasmissiva, nozionistica. Dobbiamo andare verso il modello delle università pratiche, che durano due-tre anni e forniscono effettive competenze. Insegnanti ed educatori dovrebbero poi fare un tirocinio molto professionalizzante, non convenzionale. Il fatto che gli insegnanti non siano competenti della gestione dei conflitti porta conseguenze molto gravi nel sistema scolastico: una carenza in cui si inserisce facilmente il business delle neurocertificazioni: la conflittualità, così come la cosiddetta “ADHD”, viene definita un disturbo e come tale certificata e medicalizzata. C’è un vero e proprio boom di bambini autistici, che però è una bufala: almeno nel 70% dei casi, dietro la certificazione non c’è una patologia. Ma invece di utilizzare la pedagogia, si preferisce ricorrere alla medicina.

Ma come si fa a imparare a gestire un conflitto? Gli educatori che lavorano in casa famiglie si trovano spesso a doverne affrontare: conflittualità dei ragazzi tra di loro, o verso gli educatori stessi, dei genitori verso gli educatori. Cosa consiglia loro di fare?

Direi loro: “Non esitate, formatevi! Perché la formazione universitaria non fornisce questa competenza, che invece è fondamentale, tanto più in questi contesti. Noi, con il CPP, abbiamo messo a punto un vero e proprio metodo, che non si apprende in un’ora, ma richiede un percorso. E siamo a disposizione per chiunque, in qualsiasi parte d’Italia, singolarmente o in gruppo, voglia seguire uno dei nostri corsi per imparare a gestire i conflitti. Tra un mese, uscirà un videocorso su come gestire le situazioni difficili.

Quale indicazione preliminare?

Intanto, bisogna convincersi che la conflittualità tra i ragazzi è il territorio in cui questi possono imparare a vivere insieme: il conflitto è un un cantiere di apprendimento, non può essere visto come macerie da sgombrare. Anzi, quando si impara a gestire il conflitto, questo diventa il miglior antidoto contro la violenza ed è una risorsa fondamentale per stare insieme e vivere meglio con se stessi e con gli altri. Poi, fare commenti è molto pericoloso, quindi bisogna astenersi: ascoltare e basta. Altro elemento fondamentale: non personalizzare mai i contenuti, ma restare sul problema. Faccio un esempio: se c’è il pavimento sporco, non dire “Sei un maiale”. Se si personalizza, nasce il conflitto: “Se io sono un maiale, tu sei un asino”. E nel frattempo, il pavimento resta sporco. Sono piccole e grandi strategie che bisogna apprendere. L’educatore deve imparare queste tecniche, perché se non impara a gestire il conflitto, si sente perso, subisce, va in burnout e alla fine cambia lavoro.

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