Comunità per minori, cosa prevede la riforma? Parola all’avvocato

Il minore al centro: intorno, una rete di professionalità e competenze, che elabori e sviluppi un progetto che tuteli il suo interesse. E’ questo, in sintesi, l’obiettivo principale della riforma della giustizia minorile. A tal proposito, nei giorni scorsi, l’associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf) è stata ascoltata in Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono minori. Ce ne parla il presidente, Alberto Figone, che abbiamo intervistato.

Dobbiamo ricordare innanzitutto che l’affidamento di minori alle comunità deve essere la soluzione finale, prevista dall’ordinamento in situazioni di grande difficoltà della famiglia di origine, ma non tanto da pensare ad un’adottabilità del minore. La finalità di questo inserimento deve essere il reintegro del bambino in famiglia. La riforma prevede alcune importanti misure di tutela: da un lato, forme di controllo e verifica ulteriori rispetto a quelle già esistenti, per rendere il più possibile trasparente l’attività delle case famiglia: questo non solo per smascherare criticità, ma anche per mettere in luce le professionalità e l’ottimo lavoro che molte case famiglia svolgono. Allo stesso tempo, la riforma vuole garantire ancora di più il fondamentale diritto del minore di crescere nella propria famiglia, sancito dall’articolo 1 della legge sull’adozione e ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che più di una volta ha sanzionato l’Italia”.

Ma qual è, attualmente, lo stato di salute del diritto del minore a crescere nella propria famiglia?

Spesso l’allontanamento viene disposto dai tribunali in situazione di conflittualità forte tra genitori e in situazioni ricondotte alla cosiddetta ‘Pas’, la sindrome di alienazione parentale: una questione complessa, dal momento che la Corte di Cassazione ha negato che si tratti di una sindrome. E’ però certo una situazione di disagio del minore, che rifiuta l’altro genitore a volte anche in modo molto oppositivo, per cui è una condizione che dovrà essere approfondita. La riforma prevede che in tutti i casi in cui un minore rifiuti il rapporto con un genitore, il giudice dovrà fare accertamenti per capire le ragioni. Successivamente, dovranno essere attivate situazioni d’intervento dei servizi sociali, che possano rendere effettivo il diritto del bambino a riprendere la relazione con entrambi i genitori. Noi spesso vediamo invece l’affidamento al servizio e il collocamento in comunità in situazioni in cui c’è conflittualità, oppure per ‘bonificare’ – così si sente spesso dire – il minore dall’influenza notevole di uno dei genitori. Dobbiamo essere molto cauti, è compito del giudice accertare la situazione, mettendosi dalla parte del minore: anche se ci fossero situazioni di prevaricazione da parte di un genitore sull’altro, dobbiamo sempre domandarci se l’allontanamento sia la soluzione giusta. In generale, la riforma non vuole certo demonizzare le case famiglia, che svolgono un lavoro prezioso, ma deve essere tutto inquadrato in un contesto in cui si tutelino i diritti genitori e le condizioni dei minori”.

C’è poi un elemento fondamentale e si chiama progetto: un elemento che la Fondazione conosce molto bene e considera da sempre centrale e fondamentale.

Quando avviene l’inserimento in una casa famiglia o in famiglia affidataria, è necessario che ci sia un progetto. Non basta disporre l’affidamento al comune, per esempio, perché collochi in idonea struttura o famiglia: occorre che ci sia un progetto e che questo preveda il mantenimento della relazione tra il minore e i suoi genitori, sempre nell’ottica del rientro in famiglia. Il cuore della riforma è questo: ogni provvedimento, anche il più drastico, deve essere tutelante per il minore”.  

Un’altra criticità riguarda i tempi del rientro in famiglia, che a volte si allungano per lentezze della macchina giudiziaria o per altre lungaggini e inefficienza, sulla pelle dei bambini e delle famiglie.

Oggi il problema è in parte risolto, perché mentre prima l’affidamento non aveva un termine prefissato, ora ha una durata massima di due anni, prorogabile. E’ vero che questo termine può essere facilmente bypassato senza che ci siano sanzioni, ma è anche vero che la sensibilità acquisita in campo minorile fa sì che i termini siano rispettati. La riforma migliorerà ulteriormente questo aspetto, perché la Procura, laddove vedesse che ci sono affidamenti che vanno per le lunghe, possa intervenire, verificando se ci siano gli estremi di uno stato di abbandono e quindi le condizioni per un’adozione. Circostanza, questa, piuttosto difficile da realizzare, visto che, per avere una pronuncia di adozione, deve esserci uno stato di abbandono morale e materiate, che è una situazione di diritto molto pesante. Se il bambino ha relazioni anche saltuarie con parenti, non potrà essere adottato”.

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