Così si racconta l’educatore

Emanuela ha 42 anni e ed è educatrice da 16. Perché? “Perché non avrei voluto fare nient’altro. Da sempre, ho voluto fare questo. E oggi, passati 16 anni, tra tante fatiche e difficoltà, non cambierei il mio lavoro con nessun altro”. Il ricordo più brutto, il ricordo più bello e poche, semplici richieste perché gli educatori possano fare meglio il proprio lavoro. Ed evitare il “burnout”.

A Emanuela, educatrice “anziana”, referente di casa Pollicino, chiediamo di raccontarci il suo lavoro, nel giorno in cui si celebra la festa di tutti i lavoratori.

Perché proprio questo lavoro?

Fin da subito, è stato chiaro: o questo lavoro, o nessuno. Già all’Università: o Scienze dell’Educazione, o niente. E anche oggi, dopo 16 anni, non riesco a immaginarmi in nessun altro modo, se non come educatrice in casa famiglia.

Cosa serve, per diventare educatore?

In verità, molto di più è quello che si impara facendo, tramite l’esperienza. Serve mettersi in gioco e in discussione sempre, avere consapevolezza dei propri punti di forza, ma anche dei propri punti di fragilità, per farne uso nel modo migliore ed entrare in empatia. Sì, perché serve tanta empatia, ma la tempo stesso serve anche tanta capacità di prendere le distanze, per essere lucidi nelle decisioni. E serve la capacità di fermarsi e ascoltarsi, ma tutto questo si impara negli anni. E poi serve formarsi, continuare a formarsi costantemente: s’impara con l’esperienza ma anche con la formazione, con la partecipazione a corsi e convegni. Serve il confronto, anche, è fondamentale, perché da soli si potrebbe far male: serve l’armonia con se stessi e con il gruppo. Servono, ovviamente, tanta passione e tanta pazienza. Se non è un lavoro che ami profondamente, vai in burn out e poi molli. Serve un certo distanziamento emotivo, per non bruciarti: il rischio enorme, in questo lavoro, è l’invischiamento. E poi serve coerenza, tanta coerenza: l’educatore deve essere prevedibile e deve esserci, a 360 gradi: deve fare ciò ciò che dice, dare ciò che promette, perché i ragazzi possano fidarsi di lui. A casa, questi ragazzi sono abituati all’imprevedibilità: delle regole, degli orari, dei pasti, degli eventi, delle reazioni, imprevedibilità della presenza, dell’esserci. Qui devono abituarsi alla prevedibilità, devono sentirsi contenuti, per poter tirare fuori il meglio.

Cosa hai imparato in questi anni?

Ho imparato l’importanza del compromesso, a partire dai punti di vista diversi. Ho imparato che non sempre esiste un sì o un no, né tra colleghi né tanto meno con i ragazzi serve la mediazione, serve trovare un punto d’incontro. Ho imparato, soprattutto, a convalidare le emozioni dei bambini e delle bambine: tutte le loro emozioni devono essere riconosciute e accettate, per poi poterle educare. Ossia, per poter tirare fuori il meglio dei ragazzi, dopo aver fatto uscire il peggio. E poi ho imparato a essere contenitiva, mentre all’inizio ero rigida, rigidissima. Mentre l’educatore deve essere, appunti, coerente e contenitivo. E deve saper entrare in relazione, che non è sempre facile, non è scontato: ci si riesce a volte anche dopo tanti episodi di scontro. Questa è un’altra cosa che ho imparato: la relazione inizia dopo un confronto acceso, lo chiamerei quasi uno scontro, una forte opposizione del ragazzo: nello scontro ci si conosce, si capisce il limite che ognuno dà all’altro.

Il ricordo più brutto?

Ci sono stati tanti momenti difficili e faticosi, ma quello che mi ha proprio sconvolta è stato l’arrivo di un bambino russo, V. Aveva un’esperienza durissima alle spalle e problemi gravissimi nel relazionarsi e ambientarsi. Non parlava la lingua, quindi avevo anche la frustrazione di non capirlo e non essere capita da lui. E poi aveva una grande aggressività, che riversava su tutti noi, una rabbia mai vista: uscivamo di qui pieni di graffi, di sangue, con le sue urla strazianti nelle orecchie che ancora mi sembra di sentire, qualche volta. Quel periodo è stato una valanga di emozioni contrastanti e ambivalenti e di frustrazioni: la necessità di contenerlo fisicamente mi procurava dolori e stanchezza, la sua rabbia mi ha travolta, alimentando la mia rabbia di fronte a quello che la cattiveria degli uomini può procurare in un bambino di 10 anni. Continuamente mi dicevo “Guarda come l’hanno ridotto” e provavo rabbia. Uscivo di qui devastata e affrontavo ogni turno con angoscia: dopo un mese ho avuto una broncopolmonite, sono sicura che sia stata una reazione a quella situazione. Piano piano, grazie al confronto con gli altri educatori, alle supervisioni in Fondazione, al confronto con la nostra psicoterapeuta Nicoletta e l’assistenza sociale Daniela, alla collaborazione con il centro famiglia, alla psicoterapia personale, le cose sono andate meglio: lui ha imparato a conoscerci, ha capito che non eravamo cattivi, ha acquistato fiducia. Ma è stato senza dubbio il momento più brutto in 16 anni di questo lavoro.

Il bello di questo lavoro?

La cosa più bella in assoluto è quando vedi i bambini sbocciare, dopo un progetto che ha funzionato. Penso in particolare a due progetti, uno di affidamento extra-familiare, l’altro di adozione: avevano iniziato già a sbocciare qui, in casa famiglia: ora sono esplosi e possono volare e avere il meglio che si meritano. Ma dobbiamo ricordarci che il bene va sempre difeso con forza: è purtroppo facile ricadere nel “male”, in ciò che nella loro vita non ha funzionato, mentre è difficile conservare il bene che con fatica si è costruito.

Si può conciliare il lavoro di educatore con il “lavoro” di genitore?

Io ho tre figli, quindi sì, è possibile. Non è facile, però, anzi è molto faticoso e richiede grandi sacrifici anche alla famiglia: al marito o alla moglie, che deve essere presente quando tu non lo sei, di giorno, di notte, nei giorni di festa. Ma richiede sacrifici anche ai figli: i miei sono abituati, da sempre, a dividermi con altri bambini, che conoscono, perché condividere è inevitabile e importante. Io condivido tanto del mio lavoro a casa e sento una famiglia alle spalle, che condivide il mio lavoro. Mia figlia, quando le chiedono che lavoro faccia la mamma, risponde con orgoglio: “Educatrice in casa famiglia”.

Oggi è la Festa del Lavoro: in che misura sono tutelati, oggi, gli educatori in Italia?

Dal punto di vista lavorativo, siamo messi piuttosto male. Basti pensare che un educatore guadagna meno di un maestro elementare, ma lavora a turni, giorno e notte, feriali e festivi e affronta quasi sempre situazioni drammatiche, affrontando sfide e pericoli. Andrebbe quindi, in generale, valorizzato l’impegno e la passione, ma anche il sacrificio necessario in questo lavoro. Innanzitutto, quindi, un riconoscimento economico. In secondo luogo, un supporto psicologico individuale, che per me è importantissimo: la terapia permette di individuare gli errori che tutti in questo lavoro commettiamo, di prenderne consapevolezza e correggere il passo. E poi sarebbe importante il prepensionamento, come previsto per i lavori usuranti: o, ancora meglio, una strategia che permetta agli educatori anziani di svolgere una diversa mansione. A volte mi chiedo: come farò a 60 anni a fare questo lavoro, ad affrontare questi problemi, a misurarmi, anche fisicamente, con questi ragazzi? Sarebbe bello, per esempio, che agli educatori anziani fossero assegnati compiti di formazione o di monitoraggio, che fossero magari inseriti in un bacino di formatori che l’ente locale possa utilizzare e valorizzare nella formazione dei nuovi educatori, o nell’avviamento di strutture o nel controllo e nel monitoraggio dei servizi. Sarebbe bello, ma siamo molto lontani da questo. Intanto, spero di conservare sempre la forza e la passione che un educatore deve offrire ogni momento ai bambini e ai ragazzi che gli sono affidati e che deve aiutare a sbocciare e volare.

Questa è solo una piccola parte del lavoro dell’educatore: un racconto incompleto, parziale, tutt’altro che esaustivo. Un piccolo frammento in una esperienza che dura una vita e che segna la vita, attraversando tante vite e cercando di tirare fuori il meglio da ciascuna di queste.

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