“In casa famiglia ho imparato a fare grandi sogni”: il racconto di Gabriele

“Oggi vedo il mio futuro radioso. Sogno in grande. Lo ammetto: questo lo devo alla casa famiglia. Prima, vedevo il mio futuro triste e grigio come i palazzi intorno a casa mia. Ora sogno e metto anche in ordine l’armadio: non tutti i venerdì, come facevo in Protettorato, ma quando vedo che il disordine inizia a essere troppo do una sistemata. Anche questo, l’ho imparato in casa famiglia”.

Gabriele oggi ha 19 anni e vive a Morena, in un appartamento che condivide con altri ragazzi provenienti da altre case famiglia. Le sue parole, pronunciate con un sorriso scanzonato nella voce, fanno da controcanto alla storia di Franscesco Cannadoro, che qualche settimana fa, raccondoci la sua esperienza in casa famiglia, diceva ai ragazzi che ci vivono oggi:

Vi servirà benzina. E la comunità è un buon posto per farne scorta

Gabriele ha fatto “il pieno”: tra difficoltà che racconta senza remore, inciampi di cui non si vergogna, fatiche che non dimenticherà mai, la sua esperienza in casa famiglia è quella che gli ha permesso di non vedere più il suo futuro come un palazzo grigio, ma come un orizzonte pieno di promesse.

Gabriele è entrato in Protettorato nel 2016, in piena adolescenza: una situazione familiare complicata, la scuola che proprio non andava e tanti problemi lo hanno portato fino alla porta della casa “Isola del Tesoro”. Ne è uscito a 18 anni, come prevede legge. Ma, come la legge consente, non è stato lasciato solo: grazie a un progetto di cohousing promosso dall’Asilo Savoia e accompagnato dal Protettorato, oggi viene accompagnato verso l’indipendenza e letà adulta attraverso la condivisione di una casa, ma anche la partecipazione a percorsi di formazione e inserimento professionale. Ma lasciamo che sia lui a raccontarsi.

Sono entrato in Protettorato nel 2016, dopo vari processi giudiziari per una serie di problemi che avevamo a casa: l’alcolismo di mamma e il poco interesse a seguirmi. Mio padre tornava stanco, la sera tardi e mi chiedeva: ‘Hai fatto i compiti?’. Io dicevo ‘sì’ e finiva là. Non studiavo, ma nemmeno stavo attento in classe: mi distraevo, non mi interessava proprio. Così ho perso due anni di scuola, in seconda e terza media. Sono arrivato in Protettorato dopo essere passato per altre case famiglia: mi è sembrato subito un posto molto grande, all’inizio era difficile anche orientarsi. Ho fatto quasi subito amicizia: sono persone con cui devi convivere, devi quasi forzare un bel rapporto, però devo dire che erano persone simpatiche, non ho avuto grandi problemi, se non con qualcuno. Insomma mi sono inserito bene, ero amico di tutti, mi ci è voluto un po’ per conoscere la struttura, eravamo più o meno 40 persone a vivere lì, nelle diverse case. Ma in due mesi già mi chiamavano per nome tutti.

Era bello perché eravamo tanti ragazzi e ragazze, ci sentivamo in sintonia, uscivamo insieme, potevamo andare a prendere un gelato. Insomma, non mi sentivo mai solo. E poi ho fatto esperienze molto belle in quegli anni: ricordo le vacanze a Lavinio e in montagna, ma anche l’esperienza Wakatuya.

E le regole?

Quelle c’erano e non esano sempre facili da mandare giù. Se non finivi i compiti, per esempio, non andavi da nessuna parte. Io ci provavo, provavo a imbrogliare, ero abituato: ma il registro elettronico è una maledizione, mi scoprivano sempre. Lì ero seguito, non come a casa, dove era facile sfuggire. Qui avevo volontari, tirocinanti, quasi selezionati per le materie che dovevo fare io, specializzato’ sulle diverse materie. E poi gli educatori, se vedevano che stavi troppo a casa, ti incentivano a uscire, ti facevano fare sport. Lì per lì mi chiedevo perché non si facessero i fatti loro: ero abituato con mio padre che stava fuori casa tutto il giorno e mia madre che era come se non ci fosse. In casa famiglia invece era più difficile imbrogliare che fare i compiti. Andavo d’accordo anche con gli educatori, due maschi e due femmine. Però c’erano anche cose che mi pesavano: più di tutto, il dover rientrare alle 20: avevo 17 anni e vedere dalla finestra i pischelli di 14 che stavano ancora in giro alle 22, non mi andava giù. Anche per questo, ho combinato un po’ di casini: sono anche scappato, più di una volta, ma poi mi hanno riportato indietro.

Cosa è successo quando hai compiuto 18 anni?

In uno degli ultimi incontri con l’assistente sociale, stavo facendo il punto della situazione in vista dell’estate. Avevo avuto un po’ di problemi con alcuni ragazzi in struttura e anche con la scuola: ne stavamo parlando, quando è entrato un signore, Alberto, che mi ha proposto, d’accordo con la Fondazione, un progetto di semiautonomia per ragazzi dai 18 ai 21 anni che escono dalle case famiglia. In poche parole, mi avrebbero dato una casa, pagando loro l’affitto e le spese, e mi avrebbero fatto fare qualche corso per specializzarmi in qualcosa. E così sono andato a vivere a Morena, in questo appartamento che divido con due ragazzi che vengono da altre case famiglia.

E i tuoi genitori?

Quando vivi in casa famiglia ci sono le visite e anche i pernotti a casa. Con mia mamma non avevo un bel rapporto, era alcolista, depressa, prende le pasticche, spesso non è in lei. Era difficile averci un rapporto, poteva rinfacciarmi anche il fatto di essere nato. A casa con lei erano belle litigate e tantissime problematiche. Una volta in casa famiglia sono riuscito a gestire meglio la cosa, non dovevo stare né da papà né da mamma: l’aveva scelto il giudice e nessuno poteva prendersela con l’altro. Papà era d’accordo che io stessi in casa famiglia, riconosceva di non potermi stare dietro, mamma invece no. Il Protettorato ha lavorato molto con la mia famiglia e provato a recuperare anche il mio rapporto con mia madre, organizzando più incontri. Ma lei arrivava con la bottiglia in mano, ubriaca e faceva le solite sceneggiate, così il giudice ha deciso di non farla più venire. Nel fine settimana potevo andare da papà. Dopo un po’, d’accordo col giudice e con l’assistente sociale, ho iniziato a stare con lui dal venerdì sera fino al lunedì dopo scuola.

Andate d’accordo?

Sì, stiamo tranquilli. Sono diventato addirittura ordinato, l’ho imparato in casa famiglia: lì il venerdì si rifaceva l’armadio, rimettevamo a posto tutti i vestiti. Ora non è che lo faccio proprio tutti i venerdì, non sono rimasto traumatizzato insomma. Però neanche ho più quel mucchio di vestiti per terra che stava fisso nella mia stanza quando vivevo a casa.

E gli amici della casa famiglia?

Sono rimasti i miei migliori amici. Alcuni, come me, non vivono più al Protettorato, altri stanno ancora lì: abbiamo un gruppo Whatsapp e tutte le settimane giochiamo a calcetto, sui campi del Protettorato. Sono amici veri, gente con cui ho vissuto ogni giorno.

E cos’altro ti è rimasto, oltre agli amici, di questa esperienza in casa famiglia?

Sono uscito da lì che ero una persona diversa. Tra le fatiche, i problemi, anche i rodimenti per alcune regole, ho imparato tanto e ora riesco a sognare un futuro radioso. Vedo che sono capace, per esempio, come barman: sento che potrei avere fortuna, magari presto aprire un mio locale. Nel frattempo, questo progetto mi aiuta a costruire un futuro: per due anni non avrò spese quindi potrò lavorare e iniziare a mettere da parte i soldi. Con quelli, mi prenderò una casa tutta mia e magari mi farò una famiglia. Prima, però, voglio vivere un po’ da solo, perché finora ho vissuto sempre in mezzo a tante persone. Un po’ di solitudine me la sogno…

Dove ti vedi, tra dieci anni?

Roma è la mia città e penso che resterò qui. Ma magari un giorno mi chiamano a prendere in mano un locale a Miami e allora che faccio? Prendo l’aereo, magari la donna che amo, e parto. Non voglio mettermi limiti, mi lascio aperte tutte le possibilità. Voglio sognare in grande. E’ questo, soprattutto, che ho imparato in casa famiglia.

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