“Così siamo diventati più forti”: la storia di una mamma, di un papà e di un figlio allontanato e poi rientrato

L’allontanamento di un figlio dai suoi genitori è un momento sempre drammatico. Tra sensi di colpa e paura di non tornare più insieme, non è mai facile accettare questa decisione. Il “segreto” è sapere accettare il supporto che viene offerto, entrando in quel “lavoro di squadra” che, insieme alla struttura e ai servizi, si metterà in moto per aiutare la famiglia a ricomporti. Il racconto di un papà e di una mamma

“E’ stata dura, avevamo paura che non ce lo ridessero più. Ma poi è stato come in primavera, quando tutto sboccia. Ora lui è più forte e noi anche: siamo stati accolti e ascoltati, senza mai essere giudicati per gli errori che avevamo commesso”. A parlare, è il papà di M., che oggi ha 16 ed è tornato da quasi un anno a vivere con i suoi genitori, dopo una separazione durata quasi quattro anni. Il racconto di questo papà e di questa mamma apre una finestra su cosa è e soprattutto cosa può il supporto di una “squadra di cura”. A loro la parola

Inizia il papà, loquace, un fiume in piena. Si preoccupa, inizialmente, che suo figlio sia tutelato, che non venga nominato, che non appaia in foto, che non debba soffrire perché la sua storia viene messa in piazza. Rassicurato, prende a parlare, tra ricordi e lucide analisi.

Inizialmente, abbiamo vissuto come se M. ci fosse stato tolto, portato via. Eravamo molto spaventati: la paura più grande era che andasse per le lunghe, o addirittura che non ce lo ridessero più. Anche lui i primi tempi è stato molto male, aveva 12 anni e gli mancavano, anche fisicamente, il bacetto e la chiacchiera prima di andare a dormire. Ci chiedeva: “Quando esco? Quando torno a casa?”. Fin dall’inizio, però, ci siamo guidati e sostenuti dagli educatori, dalla psicologa, dall’assistente sociale, dai volontari, da tutto il mondo che stava prendendo in carico noi e nostro figlio. Abbiamo seguito tutti i consigli e le indicazioni, non abbiamo intralciato nessuno. Nella sfortuna e nel dolore, la grande fortuna è stata trovare un gruppo così forte e capace.

Ma devo dire che anche io e mia moglie ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo fatto tanto: potevamo iniziare a gettarci addosso le colpe, potevamo allontanarci ancora di più, negare ciascuno le proprie responsabilità, rifiutare l’aiuto che ci veniva offerto. Inizialmente è stata dura, eravamo molto arrabbiati con noi stessi e l’uno verso l’altra. Forse poi ci ha aiutato il lockdown, iniziato poco dopo l’allontanamento di M.: ci siamo guardati e ci siamo detti che, se avessimo continuato a fare ciò che avevamo fatto fino a quel momento, avremmo fatto male a lui e a noi stessi.

Così, abbiamo deciso insieme di affidarci, abbiamo capito di avere bisogno di aiuto e abbiamo accettato il sostegno che ci veniva offerto. Sono iniziati gli incontri con una psicologa per noi come coppia, mia moglie ha iniziato un suo percorso individuale. M. intanto aveva la sua psicoterapia, il suo spazio per lavorare sulla sua storia. Abbiamo avuto l’opportunità di affrontare anche un percorso terapeutico familiare che ci ha permesso di raccontare la nostra storia, di parlare di alcuni tabù familiari e di trovare insieme un nuovo equilibrio inizialmente precario e poi sempre più solido. Insieme incontravamo la psicologa: questo è stato molto importante e rassicurante anche per M., che si preoccupava per noi. Lo incontravamo nel Centro per le famiglie. Nella squadra c’era l’assistente sociale del municipio, e il tutore, nei quali abbiamo trovato degli importanti riferimenti! Ci siamo affidati anche agli educatori e volontari. E’ stato un grande dispiacere, soprattutto per nostro figlio quando è cambiato l’operatore di riferimento in casa famiglia.

Si è messa in moto una vera e propria squadra di cura: è importante dirlo, perché sembra che le cose buone non esistano, che i servizi non ci siano. Invece ci sono, anche nel pubblico, e nel nostro caso hanno funzionato. Bisogna però anche sapersi affidare. Noi ci siamo detti: “Facciamolo per noi e per lui”. E l’abbiamo fatto. Ci abbiamo messo del nostro e siamo stati circondati da persone capaci di aiutarci: gli operatori, la psicologa, ma anche i volontari. In particolare M. ha avuto un volontario che ha seguito il suo progetto dall’inizio e ancora oggi è in contatto ed è una figura di riferimento.

Un intoppo, però, c’è stato, in questo percorso: la decisione del tribunale si è fatta attendere tanto: M. era pronto a rientrare, noi eravamo pronti a riaccoglierlo, lo dicevano tutti, dalla psicologa agli operatori agli assistenti sociali. Ma il giudice non si decideva. Il decreto ha tardato di oltre un anno ed è stato bruttissimo: per noi, che avevamo paura che volessero farlo rimanere in struttura fino a 18 anni; e per M., che chiedeva, non capiva, vedeva gli altri tornare in famiglia e lui no. Ogni volta sembrava quella buona, ma poi c’era sempre qualcosa che mancava. E spiegarglielo era difficile, comunicargli che doveva ancora aspettare era un dolore enorme.

La mamma ricorda perfettamente le date:

E’ entrato il 27 novembre 2017, è uscito il 28 maggio 2021. E’ stato un rientro graduale, prima tornava solo il fine settimana, poi ha iniziato a stare con noi 4 giorni su 7, poi è rientrato definitivamente. Frequenta ancora il Centro diurno e ne è contento, come ne siamo contenti noi. E’ molto cambiato, dopo l’esperienza in casa famiglia: allora era un bambino, silenzioso, remissivo, diceva sempre di sì e si sentiva in colpa per quello che ci accadeva. Anche l’allontanamento lo ha vissuto con senso di colpa. Oggi finalmente sa dire di no e quei no ci fanno tanto piacere. E’ più presente, dice la sua, non è più il ragazzo che sta nell’angoletto, si vede che ha acquistato fiducia in se stesso, grazie al sostegno che ha ricevuto e alle relazioni che ha creato. Il percorso di cura della famiglia è stato importante perché ha visto i genitori disposti a farsi aiutare ed è stato un modo per fargli sentire che non era lui il problema ”.

Un consiglio per le famiglie che affrontano ora lo stesso problema? Riprende la parola il papà, che non ha dubbi:

“Affidatevi, lasciatevi aiutare e fatelo con convinzione, non perché vi dicono di farlo. La vita non è sempre facile, gli ostacoli esistono e noi ne abbiamo incontrati: ma ora è come quando in primavera sboccia tutto. Anche a M. diciamo ogni giorno che i problemi esistono, il dolore anche, ma ci sono anche tante persone pronte ad aiutarci. Gli abbiamo fatto capire che non è colpa sua, quello che è successo non dipende da lui: anzi, lui è stato quello più forte, avrebbe potuto lasciarsi andare, ma non lo ha fatto. Ora, grazie al grande lavoro che è stato fatto con lui, ha superato il senso di colpa. E anche noi abbiamo riconquistato fiducia in noi stessi e la forza che serve a due genitori per crescere un figlio: devo ringraziare tutti quelli che ci hanno aiutati, che hanno creduti in noi, che ci hanno accolti e ascoltati, senza mai farci sentire giudicati”.

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