Riflessioni di un educatore in casa-famiglia al tempo dell’epidemia

Siamo arrivati a quasi un mese dall’inizio dell’isolamento, le giornate passano più o meno tutte uguali, fuori come in casa-famiglia. Il governo riscopre finalmente i minori, interrogandosi sulla possibilità di far uscire i più piccoli, sospesi fra il rispetto di tante regole e il diritto a non impazzire fra le mura domestiche, insieme al resto del nucleo familiare. Noi in casa-famiglia, per una volta, siamo i privilegiati, grazie agli ampi spazi e al verde che ci circondano.

In una prima fase della pandemia, quando sembrava un problema per noi lontano, ci siamo limitati a rassicurare i ragazzi, contrastando quella naturale paura, figlia delle fake news e dell’ignoranza. Quando però il problema si è presentato con tutta la sua virulenza abbiamo preteso e ottenuto che crescessero, rapidamente, responsabilizzandoli spesso al di là delle loro capacità, in nome di un interesse comune e della sanità collettiva. E incredibilmente hanno risposto, al di là di ogni aspettativa, senza particolari obiezioni, senza probabilmente rendersi conto della portata dell’evento che iniziavano a vivere.

Questa epidemia sembra essere una cosa da “grandi”, che non tocca i ragazzi oppure lo fa in modo meno pericoloso di quanto facciano gli incidenti stradali, le droghe, l’alcool e tutte le altre disgrazie che possono capitarti se sei un adolescente. Eppure, i ragazzi si sono allineati al mondo degli adulti, quel mondo che spesso percepiscono come ostile, assecondandone le decisioni, senza contrasti, e senza dire: “non mi riguarda, per una volta sono un privilegiato”.

Poi ci siamo noi, gli educatori, che per carità non salviamo vite, non siamo in trincea, ma che comunque questa lotta la combattiamo, fra mille ansie. Se i tamponi scarseggiano negli ospedali delle regioni maggiormente colpite, figuriamoci se la popolazione educativa viene monitorata; così capita che ogni tanto qualche collega si assenti per malattia, spesso e fortunatamente per pochi giorni, più raramente per settimane. Con pudore magari gli scrivi, fra l’interesse per lui e per le sue condizioni, e quello per le tue che ci sei stato in contatto, certo rispettando le distanze, però sempre in contatto ci sei stato. E un po’ ti vergogni, ma sai che a casa ci sono mogli, mariti, figli che ti aspettano, e che non vuoi essere tu a portare questo male. Ci sta pure che a casa non ci sia nessuno e forse è ancora più difficile farsi scendere l’ansia dalle spalle. Fra noi educatori regna una strana pax romana, nessuna polemica, almeno in apparenza. Di questo periodo, avremmo discusso della turnazione pasquale, ora non interessa a nessuno, per la gioia di chi fa i turni. Quest’anno, almeno in questo, anche lui è un privilegiato.

E poi c’è la paura per questa fase due: ce la farà il paese a reggere? Esisteranno i servizi sociali dopo il Covid, o l’emergenza economica sarà tale che sparirà quel poco che resta dei fondi per il sociale? Poi pensi che qualcuno dei ragazzi fra poco, ad emergenza finita, finirà il suo percorso qui e non sai che mondo troverà fuori, fra le macerie di questo male.

Ieri uno dei ragazzi mi ha detto che è dispiaciuto perché questo virus gli rovinerà l’estate: bel casino, dice. Mi ha colto di sorpresa, una sorpresa mista a rabbia e stavo per dirgli qualcosa del tipo: “ma come, con tutto quello che succede ti preoccupi dell’estate?” Ma alla fine non ho detto niente e forse è stato meglio così, oggi non è il momento di preoccuparsi del domani, oggi siamo i privilegiati.

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