Questa è la storia di uno di noi

Le ciabatte. Non le avevo, in Africa. A piedi nudi, spesso. Le scarpe solo quando servivano. Sempre le stesse. Un solo paio. Me le aveva regalate mio padre, dopo aver lavorato per un mese. Era tornato a casa tutto contento, luccicavano. Ma è stato tanto tempo fa. Mio padre. Mia madre. Chissà, ero felice? Immagino di sì. Non me lo ricordo. Non me lo ricordo più. Le scarpe, quelle sì, me le ricordo. Sono durate tanto tempo. Non luccicavano più. Io ci provavo, a lucidarle. Ma una aveva un buco, l’altra si stava sfondando. L’unico paio. Tanti anni fa.

Ricordo il viaggio. La fuga. Non potevo più stare a casa mia. Nel mio Paese. Troppa violenza. Ne ho vista tanta. Troppa povertà. Troppa strada, quella fatta per arrivare in Libia, da dove speravo di partire presto. Illuso. Da solo. Brutta gente. Peggio di casa mia. Non c’era mio padre. Le scarpe me le hanno rubate. Cosa se ne saranno fatti? Erano vecchie. Erano un ricordo.

Ho visto, come si comportavano. I miei carcerieri. Li ho guardati. Ho pianto. Ho pianto di nuovo. Quando non mi vedevano, però. Non volevo dargli soddisfazione. Ma ero piccolo. Forse non di fisico, stavo crescendo. Ma di testa sì. Dov’erano i miei? Dov’era mio padre? Dov’erano le mie scarpe? Mi picchiavano. Ancora, e ancora. Volevo la terra promessa, ho trovato una prigione. Troppo a lungo. Mi guardavo il corpo, la notte. I segni. Cercavo di non piangere. Non ci riuscivo.

Poi la nave. Il mare. L’Italia. Cos’è l’Italia? Non lo so. Ma so com’ero io. Non so neanche come parlavano, gli italiani. Ma ricordo che quando sentivo parlare arabo mi veniva il terrore. No, non voglio tornare indietro. Voglio restare qui. Anche se non capisco la vostra lingua.

Roma. Sto a Roma. Sì, quel nome l’avevo sentito. Ma qui non so cosa fare. Allora scappo. Non mi piace la gente che si occupa di me. Ho paura che diventino come gli altri, quelli cattivi. Cercano di convincermi che non sarà così. Non lo so. Non lo so. Ho paura.

Bevo. Non so se mi piace. Ma bevo. Lo facevano anche i vecchi, quand’ero a casa. Non tutti. Quelli tristi. Che poi diventavano cattivi, pure loro. Sto diventando cattivo anch’io. Mi succede quando bevo. Me ne accorgo. Provo a smettere. Piano piano. Dai, che forse ci riesco.

Scappo. Ieri. Oggi. Domani. Scappo da questo posto. Non voglio che mi rinchiudano. Dov’è la mia famiglia? Dove sono i miei amici? Non lo so. Non me li ricordo più. Le immagini cominciano a svanire.

Mi guardo intorno. Oggi non sono scappato. Mi parlano, mi sorridono. Oggi li sto a sentire. Comincio a capire la lingua. Comincio a pensare che forse questi non sono cattivi. Vogliono aiutarmi: possibile? A me, davvero? Vogliono insegnarmi a vivere qui. A guardarmi intorno. A non aver paura. Non è facile. Ma ci sono altri ragazzi che mi sorridono. Ragazzi come me. Neri. Bianchi. Piccoli. Grandi. Anche nei loro occhi c’è la paura. Non in tutti. Qualcuno ride. Sicuramente più di me. Qualcuno gioca a pallone. Quello sì che mi piace. Mi chiamano. Vado anch’io. Non ho più voglia di picchiare tutti. Ho voglia di stare bene. Ho voglia di giocare. Ho voglia di sorridere.

Ho compiuto 18 anni. Sono uscito da quel posto. Mi hanno mandato in un’altra casa. Ho imparato un lavoro. Come dicono? Gastronomico. Sì, gastronomico. Ma ancora non mi sento troppo sicuro. Mio padre non c’è più. Ci penso, ogni tanto. Vorrei che fosse qui. E allora torno da loro. Torno in quella casa. Voglio imparare meglio l’italiano. Voglio stare bene con tutti. Mi aiutano. Sì, mi aiutano. L’ho capito, finalmente. E ho capito che qui sto bene. Adesso sono io che voglio venirci, nessuno mi obbliga a farlo. E quando vengo qui, mi metto le ciabatte. Sì, mi tolgo le scarpe, perché adesso ne ho un paio pulito, altro che, non quelle vecchie scarpe che mi aveva regalato papà. Però, qui, me le tolgo. Le metto in un angolo. Mi infilo le ciabatte. Perché qui sto bene. Perché questa è (anche) casa mia.

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